di Alberto Benzoni
Lo scorso sei maggio, al grido di “Roma non si vende“, hanno sfilato a Roma, da piazza Vittorio al Campidoglio, manifestanti di diverse sigle. Sigle in buona parte nuove e senza padrini politici, unite nella piattaforma “per un’altra idea di città“.
Ma questa non è una novità. La loro sarà una protesta contro ritardi e inadempienze della giunta; e in vista di un incontro al termine della manifestazione che, molto probabilmente, lascerà il tempo che trova. Ma neanche questa è una novità; come non è una novità, almeno in questi tempi, che presenti alla manifestazione non ci siano, nè siano richiesti, rappresentanti dell’opposizione capitolina ( con particolare riferimento al Pd).
La novità sta nel fatto che i movimenti che hanno organizzato la giornata del 6 maggio non formulano richieste. Non chiedono che venga fatta o non fatta una cosa specifica. Non parlano- o parlano sempre meno- delle loro condizioni particolari di disagio. E che cercano, ora, di non muoversi in ordine sparso.
Perchè cominciano a capire che è vano tentare di puntare su soluzioni particolari ( oltre tutto quasi sempre non a costo zero) quando è il quadro generale, leggi la capacità del comune di svolgere efficacemente le sue funzioni di governo, ad essere segnato da un profondo degrado e dalla crescente subalternità rispetto alle presioni del governo, delle corporazioni e degli interessi privati. Si fanno, certo, i conti- molto più che nel passato- con l’esistenza del debito e con il generale deterioramento della qualità del servizio pubblico e quindi, con l’impossibilità di continuare a difendere le cose così come stanno; ma si è nel contempo, politicamente consapevoli che l’assenza di qualsiasi riflessione sulle ragioni strutturali che hanno portato alla crisi apre la strada ai progetti del governo e agli interessi privati per scaricarne le conseguenze sui lavoratori e sui cittadini romani.ù
A questo punto, però, i casi sono due: o i movimenti riusciranno a trovare degli interlocutori, politici ma anche culturali, in grado di dare forma e coerenza ad un disegno di discontinuità con il passato, coinvolgendo nel dibattito tra le grandi opzioni alternative la cittadinanza romana; o il movimento stesso comincerà a logorarsi e disgregarsi in una serie di manifestazioni e di appuntamenti senza costrutto.
Di fatto, almeno per ora, di interlocutori politici, non c’è traccia. Nè a livello nazionale, dove la democrazia civica viene massacrata, giorno dopo giorno, senza suscitare apprezzabili reazioni. Nè nella nostra città.
Non può esserlo il vecchio Pd: irrimediabilmente consumato e inquinato da anni e anni di complicità con il degrado. Non lo è diventato il M5S perchè le sue tare genetiche, intellettuali e, in un certo senso anche morali- chiusura sospettosa verso l’Altro e verso il mondo esterno, visione dell’onestà come requisito ragionieristico e strettamente individuale, assenza di generosità e, in un certo senso, anche di visione – si sono manifestate appieno alla prova del potere in una grande città e in un ambiente ostile. Non può diventarlo, al di là del contributo dei suoi singoli esponenti, una sinistra radicale, chiusa nel suo recinto minoritario e nelle sue antiche divisioni.
Rimane, o dovrebbe rimanere o dovrebbe essere all’altezza della bisogna, la “borghesia sensibile“- alias “riflessiva“- immortalata da Ginsborg e acquisita agli alti ideali della sinistra fin dai primi anni novanta. Ma, com’è come non è, questa èlite, fortemente rappresentata nella nostra città, è affetta da una rara ed estrema forma di presbiopia: al punto di interessarsi e magari anche di indignarsi per eventi e ingiustizie lontane ma di rifiutarsi di vedere ciò che accade davanti ai suoi occhi.
Di fatto, dunque, la èlite romana vista nel suo insieme, può essere al servizio di tutte le cause di questo mondo, ma non della sua città: una città le cui miserie e i cui dolori sono, semmai, vissuti con un delicato ribrezzo. Roba da politici incapaci e corrotti, di un ambiente degradato sin dalle origini. ( A Milano e a Torino,mia cara, queste cose nonpotebbero mai accadere…).
Roba da populisti.
Ma non è stato sempre così.
Non è stato così, lungo i decenni del secondo dopoguerra quando il grande progetto di inclusione e di welfare civico era guidato dal Pci e dalla sinistra, quando la, allora, forte critica all’ordine esistente nella nostra città era alimentata da un costante rapporto con i ceti intellettuali e con la città.
Mentre è tornato ad essere così negli anni della pax rutellian-veltroniana dove, nel contesto della generale concordia e unità di intenti ( in cui gli unici nemici visibili erano i montanari della Val Brembana e i loro leader), il giudizio sulle scelte del comune si misurava sulla lunghezza e qualità dell’estate romana.
Dopo, siamo rimasti nella melma, anche nel “periodo dei torbidi” iniziato nel 2008; quando, però, gli appelli al mondo intellettauali sarebbero stai irrimediabilmente inquinati da falsi messaggeri e da segnaletiche sbagliate
Oggi, però il nostro atteggiamento di distacco non ha più alibi: autoliquidatisi i falsi messaggeri e i segnali anciati dall’alto, l’orizzonte è sgombro e la realtà delle persone edelle cose perfettamente visibile. E, allora, per muoversi non sono necessari i richiami e gli appelli del tempo che fu: basta appartenere alla sinistra delle viscere oltre che della testa; oppure essere semplicemente dei cittadini di buona volontà.