Giustizia sommaria e garantismo nel caso Alatri

di Ervin Rupnik,

Ordine degli Avvocati di Roma

Giustizia sommaria e garantismo nel caso Alatri

Sostiene lo zoologo inglese Desmond Morris che l’uomo non sia altro che una “Scimmia nuda”, un primate che si differenzia da gorilla e scimpanzé solo per la mancanza di peli. In sostanza un animale, una bestia.

E i fatti di Alatri danno ragione all’etologo britannico.

Mi riferisco non tanto al brutale pestaggio che ha portato addirittura alla morte di un povero ragazzo (su cui ogni commento appare superfluo), quanto a quello che è accaduto dopo e che ancora sta accadendo: minacce di ogni tipo, pare addirittura pestaggi non denunciati, ai parenti degli imputati e agli avvocati che ne hanno assunto la difesa; tentativi di linciaggio in carcere ai danni di due degli accusati, al punto che si è dovuto metterli in isolamento; linciaggio mediatico del giudice che, il giorno prima, non aveva trattenuto in custodia cautelare uno degli imputati sorpreso con dello stupefacente.

È triste il dover constatare che fenomeni simili sono una costante, quasi fosse un bisogno innato dell’essere umano il dover fare a pezzi i propri simili, quando vi è l’occasione e, meglio, quando vi è una scusa qualsiasi.

Sì, perché la “giustizia da sé” non è che una scusa per liberare la propria voglia di sgozzare il prossimo, così come lo sono la guerra, il tifo sportivo o quello politico.

E, quel che è più grave, questo bisogno di trucidare appartiene non solo a chi materialmente lo opera, ma tendenzialmente alla massa intera che non si sporca le mani, ma che incita prima e approva poi.

Prova di ciò è il linguaggio comunemente impiegato sui mezzi di informazione quando accadono fatti gravi quali ad esempio gli stupri: se ad essere accusato è un singolo, da uomo diviene “orco”, se imputato è un gruppo, questo diviene “branco”, con l’evidente fine di far loro perdere la natura di esseri umani. Bestie, quindi, che possono essere scannate liberamente.

E se non si riesce ad appagare la sete di violenza nei confronti dei veri o presunti responsabili, la si dirige verso chi sta loro vicino: i parenti (colpevoli di non avere educato il mostro o di non di averlo chiuso in casa o di chissà che cos’altro), le forze dell’ordine (che non hanno fermato prima, non si sa su quali basi, i presunti criminali), i giudici (che li hanno liberati quando potevano tenerli in carcere a vita per un po’ di hashish), gli avvocati che osano difenderli.

Ad Alatri sta accadendo tutto questo, nell’indifferenza o, peggio, con la connivenza dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione.

Non ho letto un solo articolo di condanna per le minacce ricevute dai colleghi avvocati, né per il linciaggio (finora solo) mediatico cui è stato sottoposto il giudice che aveva scarcerato uno degli imputati arrestato il giorno precedente perché trovato in possesso di stupefacenti.

Cominciamo dal magistrato reo di aver scarcerato un pericoloso delinquente: e perché avrebbe dovuto applicare la custodia cautelare per il reato di detenzione di hashish?

Lo sanno i criticoni che i giudici sono esseri umani ergo anch’essi si possono sbagliare ergo per questo esistono tre gradi di giudizio e finché questi tre gradi non si esauriscono le condanne non sono esecutive?

Ci hanno mai pensato i suddetti criticoni che tenere in carcere qualcuno quando la condanna non è esecutiva si può fare solo in casi eccezionali?

Hanno riflettuto gli improvvisati giuristi sul fatto che i giudici, a differenza delle indovine, non hanno in dotazione sfere di cristallo per leggere il futuro e che non vi è un solo motivo per ritenere che chi è in possesso di hashish il giorno prima va a uccidere qualcuno con un cric il giorno dopo?

Ma, soprattutto, cosa avrebbero detto i probi forcaioli se ad essere arrestati per possesso di hashish fossero stati loro o qualche loro parente?

Ve lo dico io. Se la sarebbero presa con la giustizia “che tiene in carcere un ragazzo per un po’ di fumo mentre i ladri, gli assassini e gli stupratori stanno fuori”. Ecco che cosa avrebbero detto.

E che dire degli avvocati minacciati?

A parte un comunicato della Camera Penale di Roma, non ho letto per loro una sola parola di solidarietà.

Il ragionamento dei forcaioli all’apparenza non fa una piega: chi difende una bestia, è una bestia lui stesso e merita lo stesso trattamento.

Solo che, gli improvvisati giudici-boia-vendicatori del popolo, dimenticano innanzi tutto che per giudicare qualcuno colpevole di un crimine vanno seguite alcune regole, chiamate processo, che sono state fissate dalla legge dopo secoli e secoli di conquiste di civiltà.

E queste regole stabiliscono, tra gli altri, un principio elementare: quello per cui chiunque non solo ha diritto ma, anzi, deve avere qualcuno che lo difenda quando sta dinnanzi a qualcuno che lo accusa.

Dimenticano inoltre i suddetti giustizieri di non avere alcuna autorità per ergersi a giudici, per il semplice fatto che né la legge né la società gliel’hanno conferita, a maggior ragione se sono essi stessi dei pregiudicati.

E qui viene il bello, perché il furor iustitiae quasi sempre promana innanzi tutto da chi con la giustizia ha già avuto a che fare, solo dalla parte sbagliata.

È un adagio che, in quasi vent’anni di professione di avvocato penalista, avrò sentito centinaia di volte: per sentirsi meno reietto, il delinquente se la prende con chi commette reati diversi dai suoi.

E così il ladro fustiga l’assassino, l’assassino lo spacciatore, lo spacciatore il ladro. Poi, in forza dell’autorità morale loro conferita dai crimini commessi, tutti costoro insieme lanciano strali e minacce contro i pedofili e gli stupratori.

Il pregiudicato si offre dunque come esecutore materiale della condanna emessa dal popolo, cercando in tal modo di recuperare un po’ della reputazione perduta per i propri precedenti crimini.

Insomma, passano i secoli, i millenni, ma l’uomo non sembra che cambi più di tanto. Si lava, si veste, si comporta più o meno decorosamente ma, alla prima occasione che si presenta, se ne esce con tutta la sua belluinità.

Ben lo avevano capito i regimi delle epoche passate, tutti pronti ad eseguire rigorosamente in pubblico i supplizi capitali, dalle crocifissioni dei romani alle impiccagioni degli inglesi, dalle ghigliottine dei francesi agli impalamenti dei turchi, e così via.

Esecuzioni pubbliche fatte non per ammonire il popolo, bensì per appagarne gli appetiti cruenti.

Festa, Farina e Forca”, pare fosse solito dire Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie per descrivere i tre primari bisogni dei suoi sudditi, e forse aveva ragione.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

You may use these HTML tags and attributes:

<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>