il rapporto tra socialismo e populismo

di Alberto Benzoni

il rapporto tra socialismo e populismo

Populisti non sono solo Beppe Grillo, o Marine Le Pen. Il populismo è ormai è entrato stabilmente nel dibattito politico della sinistra, italiana e non: dalle ricerche di Ernesto Laclau e dall’esperienza di Chavez, fino alla nascita di Podemos e al dibattito che in Italia si sta aggregando attorno al gruppo di Senso Comune.

La storia del Socialismo italiano è anche, fin dalle origini, una storia popolare e populista: è la storia di Nenni e di Pertini, e delle lotte contadine padane raccontate da Guido Crainz e Valerio Evangelisti.

Questo scritto di Alberto Benzoni vuole essere il nostro primo “sasso nello stagno”, il primo elemento della nostra riflessione su come costruire una sinistra che sappia essere, finalmente e di nuovo, di Popolo.

Che la “sinistra di governo“( da Blair giù giù sino a Napolitano) abbia un orrore ai limiti del razzismo intellettuale nei confronti dei “populisti“è normale e, come vedremo, logico. Così come è normale e logico il suo rifiuto di analizzare il fenomeno: ci sono “loro, brutti, sporchi e cattivi” e ci siamo “noi“, l’èlite illuminata, ancora incerta, per la verità, sul modo migliore per combatterli ma, che, nell’attesa si limita ad ignorarli.
Risorgimento socialista” ha invece l’obbligo di discuterne. E a fondo. Come formazione politica italiana, perchè il populismo, nelle sue varie manifestazioni, rappresenta circa metà dell’elettorato italiano ( unico caso in Europa occidentale) ed è, nelle sue forme imbastardite, elemento centrale dell’immaginario politico collettivo.

Ma anche, e soprattutto, nella prospettiva che costituisce la nostra vera ragion d’essere: quella della costruzione di un nuovo schieramento internazionale ispirato ai principi e ai valori del socialismo di sinistra ( e cioè dell’unico socialismo possibile…). Ed è di questo secondo fronte che vorrei aprire una discussione tra noi. Limitandomi a formulare, in linea di massima, alcune schematiche considerazioni e ipotesi di lavoro.
I populisti hanno diverse facce. E una caratteristica comune.

Possono, in altre parole, assumere connotati di destra o di sinistra a seconda della cultura politica e della memoria storica dei paesi in cui si manifestano. Ma populismo è sempre opposizione frontale al processo di globalizzazione e alle èlites politiche che la rappresentano e la promuovono.

E, proprio in virtù di questo ruolo ha soppiantato o si avvia a soppiantare la “sinistra di governo” nella rappresentanza dei ceti medi e popolari principali vittime del capitalismo finanziarizzato e globalizzato; e, ciò che per noi è più rivelante, è qui e oggi, in grado di porre ostacolo anche alla nascita della futura sinistra di opposizione. Per gli “ulivisti mondiali” non c’è proprio più speranza.

Fare compromessi con il capitalismo si può e si deve. Ma non fino al punto di scarificare la propria ragion d’essere. L’essenza del socialismo è la critica del capitalismo; e gli ulivisti mondiali hanno invece riconosciuto senza riserve le ragioni e, quindi, il modus operandi dell’ “ordoliberismo“, della impresa irresponsabile; nella colpevole illusioni di esserne i nuovi garanti politici e di poterse redistribuire i frutti. Le conseguenze di questa scelta scellerata sono sotto gli occhi di tutti.
Una di questa è la perdita, senza rimedio, del proprio ruolo storico. Oggi il “socialismo di governo“è rimasto solo con sè stesso. Ha perso, per sua unica colpa, i contatti con la sua base tradizionale, sino a ridursi ai più bassi livelli di consenso dal secondo dopoguerra in poi.

E, ciò che è di gran lunga più importante nella nostra discussione di oggi, è totalmente scomparso dal campo visivo della controparte. Perchè il capitalismo ha praticato e vinto questa fase della lotta di classe semplicemente “facendo a meno”del lavoro: il finanziere non più ha bisogno di produrre per guadagnare; l’imprenditore non ha più bisogno di lavoratori per produrre; il mondo dell’economia globale non ha alcuna controparte politica cui rendere conto.

Il che significa, per quanto ci riguarda, che il socialismo di governo si è internazionalizzato, ma in modo passivo e subalterno: quanto basta per perdere i contatti con le proprie basi nazionali; ma anche molto al di qua del minimo necessario per essere internazionalmente rilevante.
E qui arriviamo al nodo della questione. Che è poi quello del populismo come inevitabile risultante: e non solo come è ovvio della scomparsa del socialismo ( per non parlare del comunismo…) nella sua veste storica di tribuno della plebe; ma anche della inevitabile crisi del mercatismo.
Detto in estrema sintesi, il suo messaggio fondamentale- leggi l’assoluta prevalenza delle ragioni dell’economia su quelle della politica e della democrazia- ha un duplice e irredimibile difetto: di essere inaccettabile per gli Stati e i Popoli.

Nel merito perchè la sovradeterminazione assoluta della politica sull’economia colpisce a morte due dei pilastri della democrazia liberale: lo stato sovrano come luogo dell’esercizio della democrazia; il suffragio universale come gante ultimo dei diritti degli individui e delle collettività. In linea di principio perchè questi due elementi sono parti irrinunciabili della nostra cultura politica e della nostra memoria storica.
Oggi questa contraddizione potenzialmente drammatica è arrivata allo scoperto; perchè percepita sulla propria pelle dal Popolo e dai ceti medi impoveriti, nel combinato disposto della perdita del lavoro, del degrado dell’ambiente esterno, dell’arrivo incontollato dell’esercito industriale di riserva e, infine, del venir meno dei propri tradizionali punti d’appoggio e di riferimento partitici, sociali o istituzionali.
Siamo dunque allo scontro. Ma in una nuova polarità che non è più tra capitale e lavoro, padroni e operai ma tra “ordoliberismo internazionale”, stati nazionali e popolo; e in cui la posta in gioco è la difesa della sovranità degli stati   come luogo dell’esercizio della democrazia.
Una polarità oggettivamente indiscutibile. anche per la nuova sinistra socialista. Come è oggettivamente indiscutibile che da questa parte della “linea del Piave” vi siano le formazioni populiste legittime eredi, per titoli conquistati sul campo, del ruolo di “tribuni della plebe“svolto dalla vecchia sinistra comunista e socialista e propriamente schifato da quelli dell’Ulivo mondiale“.
Si tratta, allora, semplicemente di sapere se, su questa ultima linea di difesa ci dobbiamo essere anche noi, oppure no.

A mio avviso, ci dobbiamo essere.

Perchè mettere in sicurezza la sovranità nazionale e la democrazia di popolo è condizione necessaria per ripartire; e perchè non abbiamo altra scelta.
Ma dobbiamo esserci con tutta la disponibilità non solo a colpire ma anche a marciare uniti nella battaglia comune. Sappiamo bene che, per vincerla, sarà necessario costruire, in corso d’opera e il più presto possibile, una nostra autonomia politica, una nostra visione internazionale e, soprattutto, una nostra autonoma capacità di narrazione.

Difesa della nazione ma senza chiusure identitarie e con apertura verso politiche comuni ( meno regole e più azioni comuni) a livello europeo. Ripudio del fiscal compact, e organizzazione dell’uscita dall’euro ma con una rete di alleanze. Lotta per una politica etica ma senza nessuna concessione al giustizialismo.

Lotta frontale contro i gestori del sistema e, in primis contro il Pd renzizzato ma in vista della ricostruzione dello stato.
Ma, per vincere, occorre, per prima cosa, impegnarsi nel confronto: e, quando necessario, a fianco di quelle forze “populiste” che l’hanno sostenuto sino ad ora e su posizioni compatibili con le nostre.

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