Una riflessione di Ferdinando Pastore, sui confini da difendere per impedire alla nuova aristocrazia di trasformarci in consumatori indifesi dalla violenza delle classi dominanti.
La vecchia classe dominante era la borghesia. L’imprenditore borghese, il padrone, sostanziava il proprio dominio all’interno del territorio, produceva beni duraturi, solidi ed aveva bisogno di rapporti stabili e dialettici, i quali consentivano la crescita del proprio indotto, l’affidabilità dei propri beni.
Aveva bisogno di specializzazione del lavoro, di competenze e per questo accettava lo scontro di classe, anche violento e sopportava, suo malgrado, che lo Stato regolasse il conflitto attraverso le strutture parlamentari e che la Costituzione proteggesse persino valori non mercantilistici.
Oggi la nuova classe dominante si presenta come una nuova aristocrazia, che ha i mezzi per possedere il mondo senza neanche mostrarsi. L’intero mondo è oggetto di dominio. Chi sta in basso resta inchiodato al territorio che però per la classe aristocratica non è più luogo nel quale sviluppare dialettica, ma solo parte del mondo da annettere attraverso la produzione di denaro sul denaro.
Per questo lo Stato diventa un ostacolo se non organizzato a protezione dei suoi interessi e per questo lo Stato deve essere de-politicizzato e configurarsi come tecnocratico, impolitico e ricettore automatico di imperativi dettati dal mercato globale, imperativi che gli stessi tecnici descrivono come neutri, necessari, ineluttabili, matematici. Le Costituzioni quindi non servono più se non per certificare la fine dello stesso Stato che si trasforma in un apparato che illude i nuovi schiavi nella dimensione del progresso.
L’illusione della FELICITA’
L’illusione più subdola è quella di una continua propaganda sulla libertà del soggetto, il quale deve poter esprimere sempre la propria personalità, che è indirizzata nel terreno della ricerca ossessiva della felicità.
Felicità misurabile solo in rapporto ad elementi come il denaro, la merce, la notorietà o il continuo mostrarsi (non si fotografa più il mondo che ci circonda ma solo noi stessi che copriamo ogni cosa) che diventano strumenti per la realizzazione di sé attraverso l’aspirazione continua al consumo: nuovi schiavi contemplano in religioso silenzio i prodotti ai quali sono sempre connessi in una dimensione sacrale.
Prodotti che potranno possedere solo facendo ricorso al credito, nella loro dimensione di dipendenza economica, e quindi producendo denaro sul denaro, così come prefigurato dai nuovi schiavisti.
Ma è il prodotto esistenziale quello che attira maggiormente e che è maggiormente promosso; l’idea che lo status aristocratico possa essere raggiunto da chiunque e che sia espressione di una modernità civilizzatrice. Per questo le campagne di sensibilizzazione sono guidate dal marketing delle multinazionali e vorrebbero sempre rappresentare un passo in avanti per la normalizzazione della società civile.
Dalla lotta di classe allo sdegno senza Politica
Lo scontro di classe deve essere rimosso e le campagne civili riguardano temi dove tutti devono manifestare consenso. Femminismo, ambientalismo, minoranze, immigrazione sono tutti temi trattati alla stregua di prodotti commerciali pre-confezionati su misura per un impolitico ed omogeneizzato sdegno e mai inseriti in una dimensione sociale che consenta una riflessione sull’intero sistema di dominio del capitale.
Anzi è proprio il capitale che si de-responsabilizza e che cerca di trasportare il terreno della violenza tra categorie di schiavi: maschio/femmina, autoctono/immigrato, eterosessuale/omosessuale, perché si arrivi ad aspirare ad una condizione indistinta e neutra dell’essere umano che non può e non deve avere alcun legame con la propria natura, con la propria terra, con le proprie radici, in una ricerca ossessiva e spudorata della propria felicità che non deve conoscere ostacoli e che continua a generare ulteriore violenza.
Si protegge forsennatamente l’uomo nella veste di consumatore il quale ha il dovere di vivere alla giornata, di dimenticare il passato, di considerare i legami temporanei e di non perdere tempo in rapporti non utili alla piena realizzazione di sé, di rigenerarsi mutando identità. Tutti i confini devono essere abbattuti ed il confine del pudore è considerato il più dannoso. Tutti i rapporti umani oggi sono spudorati, diretti, anche il linguaggio non ama sottigliezze, si esalta sempre il pragmatico “pane al pane vino al vino”.
I confini da proteggere
Ma i confini, tutti i confini, quello del pudore, quello tra due Stati, quello tra i sessi, proteggono l’essere umano e rappresentano il miglior antidoto per non erigere muri, per evitare indebite invasioni, per riconoscere e rispettare l’altro come simile e diverso.
Tutti i confini raccontano la fine di una guerra, disegnano un mondo nel quale è difficile accedere alla violenza, fisica o verbale, come unica espressione dei rapporti interpersonali ed all’interno dei quali l’essere umano si protegge insieme alla propria comunità, alla propria classe e si sviluppa in termini dialettici e politici e non solo egoistici e mercantilistici.
Negli anni 90, mentre nel mondo si esaltava la nuova Open Society senza limiti e confini, alcuni registi americani – in maniera lirica come Abel Ferrara, in una dimensione onirica come Oliver Stone oppure come Tarantino con modalità brutali ma sarcastiche – iniziarono a descrivere la spudoratezza crescente nella nostra società che degenerava in violenza futile e gratuita, non politica o sociale quindi e nemmeno passionale, che diventava misura dei rapporti interpersonali.
Quei film ci raccontavano allora la nascente società universale dove l’uomo si rappresentava come crudo e sfrontato al pari di un messaggio pubblicitario e si apprestava ad utilizzare la violenza come unico mezzo per la propria affermazione.
Se nel sistema borghese era l’astuzia a rappresentare il dominio della classe dominante, in quello neo-aristocratico alle porte si affacciava l’elemento della spietata sopraffazione a rappresentare i rapporti di forza per diventare paradigma del nuovo sfruttamento che iniziava ad investire l’intera esistenza nell’era della tanto decantata, disillusione.