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I democratici europei- e tra loro i socialisti- hanno sempre fatto il tifo per i loro confratelli americani. Perché partecipi delle loro lotte- dal New deal, alla Great society ad Obama – per una società più giusta ed inclusiva. E, per altro verso, perché ritenuti rappresentanti di una linea internazionale di dialogo, di collaborazione e di pace, in alternativa alla politica di potenza, con forti connotati avventuristi, espressa dal partito repubblicano. In alcuni casi, poi, questa simpatia è diventata ansiosa, anzi angosciosa partecipazione. Al punto di lamentare, più o meno apertamente, il fatto che agli abitanti del vecchio continente, direttamente e drammaticamente coinvolti dalle scelte dell’Amministrazione non fosse concesso il diritto di eleggerla.

Questa preoccupazione si è manifestata con particolare intensità in tre circostanze. Nel 1952, quando si temeva che, con l’avvento di Eisenhower e Foster Dulles, la vittoria repubblicana avrebbe rimesso in discussione gli equilibri di Yalta e, con essa. Qualsiasi possibilità di distensione Nel 1980, quando l’arrivo di Reagan simboleggiava, ai nostri occhi, il ritorno del riarmo e dello scontro frontale con l’Urss. E, infine, oggi, dove l’incubo Trump coincide con l’impazzimento totale della politica e, quindi con la fine di qualsiasi ordine internazionale degno di questo nome.
Supponiamo, allora, che date le circostanze, questo diritto di voto ci fosse concesso. E che, tra i tanti, anche noi di RS, fossimo chiamati ad esprimere il nostro punto di vista sulla questione.
Qui cominceremmo con una distinzione fondamentale tra dimensione interna e dimensione internazionale. Sul primo fronte il nostro sì alla Clinton sarebbe deciso; ma con una qualificazione non irrilevante. Ci riferiamo al programma scaturito dall’intesa tra la candidata e Sanders; esplicito e qualificato dal punto di vista degli obbiettivi; assai più vago, invece, per quanto riguarda le modalità della loro realizzazione. Nel concreto abbiamo l’aumento dei salari minimi a livello federale; l’estensione delle possibilità di accesso all’istruzione universitaria e alle cure mediche; la difesa dell’ambiente e dei diritti sindacali e, per finire, un impegno più deciso contro le lobby delle armi e l’apertura nei confronti degli immigrati non ancora regolarizzati.
Ottimi propositi. Tutti. Ma con un grosso punto interrogativo sulla possibilità di attuazione. Per la scontata e feroce opposizione dei repubblicani; ma anche perché si tratta di programmi per loro natura costosi e in una situazione di deficit ormai fuori controllo a livello interno e internazionale. Ora, manca qualsiasi indicazione sulle strategie da adottare come anche, e soprattutto, su quella, oggettivamente necessaria, riforma del sistema economico ( a partire dalle banche) che era pure parte non marginale del programma di Sanders.
Evidentemente l’accordo, con l’annesso “endorsement”da parte di Bernie, doveva essere raggiunto ad ogni costo; anche al costo di accantonare questioni su cui la Clinton, amica da sempre del big business e di un riformismo a piccole dosi non era disposta a fare concessioni.

E, allora, mettendoci nella pelle degli americani, democratici o socialisti che fossero, la nostra indicazione a favore della Clinton sarebbe, insieme, netta e qualificata: e per dirla tutta, a giustificarla basterebbe il fatto che Hillary è, comunque, nemica giurata e ampiamente ricambiata non solo di Trump ma ancor più del partito repubblicano e di tutto ciò che questo rappresenta.
A livello internazionale, invece ( duole dirlo ma quando ci vuole ci vuole), oggi come oggi, la nostra indicazione di voto, di socialisti e di europei non può andare oltre della scheda bianca ( o, se preferite nulla). 
“Socialisti e europei”. Qui la “e” è decisiva. E serve a marcare la distinzione netta che corre- o dovrebbe comunque correre- sui temi della politica internazionale tra socialisti e democratici; includendo tra questi ultimi anche i socialisti europei ( senza la e); almeno in base alle scelte compite negli ultimi decenni.
Stiamo parlando della guerra. Che continuiamo, per pigrizia ideologica, ad associare ai regimi totalitari o alle frenesie nazionaliste o, comunque, ai cattivi di turno; mentre sta diventando sempre più parte dell’arsenale ideologico delle democrazie, in nome, ben s’intende, della rimozione degli ostacoli che intralciano le magnifiche sorti e progressive dell’umanità. E della pace come valore in sé; che, se permettete, appartiene tutta intera alla migliore tradizione socialista. E che vediamo incarnata nelle gigantesche figure dei leader della seconda internazionale: da Turati a Jaurès.

Turati e Jaurès ( e con loro Bernstein, i laburisti inglesi, Vandervelde e i pacifisti di matrice liberale e cattolica) combattevano la guerra come fattore di disordine materiale e spirituale e come riscoperta del valore della violenza; a tutto danno del processo di emancipazione del mondo del lavoro. Mentre i democratici, in conformità con una tradizione partita dalla rivoluzione francese, la ritenevano passaggio essenziale nella battaglia contro lo status quo e la conservazione.
Oggi, dopo cento anni e due guerre mondiali il giudizio sul tema separa gli Stati uniti ( o, più esattamente, la tradizione democratica americana) dagli europei in genere e dai socialisti in particolare.
Questo avviene perché, con frequenza crescente nell’arco dei decenni, il mito della guerra democratica rappresenta il filo rosso e il principio unificante della condotta internazionale americana e, in particolare, del partito di Wilson e di Roosevelt. Può essere utile, a chiarire definitivamente i termini del problema, prendere atto, retrospettivamente, che le nostre angosce del 1952 e del 1980 non avevano proprio ragion d’essere. Perché Eisenhower prima e Reagan poi ( per tacere di Nixon) chiusero conflitti aperti dai democratici: che si trattasse della guerra fredda, della crisi del 1980 o, nel caso di Nixon, della guerra del Vietnam. Mentre, a prescindere naturalmente da qualsiasi considerazione di merito, quasi tutti i conflitti freddi o caldi che fossero, sono stati invariabilmente avviati da presidenti democratici. ( Uniche significative eccezioni le due guerre irachene: la prima, peraltro, conforme ai principi democratici perché costruita con il consenso più ampio possibile; la seconda varata con il consenso pressoché totale dell’opposizione perché basata sulla necessità e la possibilità di esportare la democrazia).
in generale, contrariamente a quanto si pensa, le democrazie sono assai più bellicose dei regimi conservatori o semplicemente autoritari. E gli Stati uniti lo sono doppiamente: in nome, attenzione, non solo e non tanto dei loro interessi e della loro vocazione all’egemonia, ma anche, e soprattutto, del loro “destino manifesto”, quello di ricondurre il mondo a loro immagine e somiglianza, dividendo gli attori della scena mondiale tra Buoni e Cattivi. I primi, quelli che accettano di svolgere il loro ruolo all’interno di questa logica; i secondi, quelli che rifiutano, in vario modo, di sottostarvi.
Nel decennio successivo alla caduta del Muro di Berlino, l’obbiettivo sembrava a portata di mano. Oggi, invece, è più lontano che mai; e ciò che più conta, gli Stati uniti cominciano ad essere consapevoli dell’impossibilità di ricondurre i reprobi alla ragione con l’uso della forza militare.
Di qui la necessità di ricorrere al piano B. Sempre di guerra si tratta; ma questa volta di una guerra da condurre con tutti gli altri mezzi possibili. Sanzioni; boicottaggio economico; isolamento politico e cordoni sanitari nei confronti di chi non accetta il nuovo ordine; e, corrispondentemente, richiamo all’ordine nei confronti degli alleati tradizionali perché si adeguino “facendo blocco”.
Questo l’orizzonte dell’interventismo democratico; o, parafrasando Clausewitz della guerra condotta con altri mezzi. Questo l’orizzonte in cui si colloca a pieno titolo la Hillary di ieri e di oggi.
Di qui il nostro rifiuto di scegliere. Che è quello di sempre di socialisti, attivamente ostili alla guerra. Ma è anche quello attuale di europei, destinati a pagare sino in fondo i cocci dell’interventismo americano ( e non solo). Perché “vittime di seconda istanza”di un conflitto, quello mediorientale, che si fa di tutto per esacerbare; perché chiamati a presiedere, in Ucraina e altrove, a nuovi cordoni sanitari di cui non si sente assolutamente il bisogno e su
cui non abbiamo alcuna voce in capitolo; e, infine, perché lo stesso nostro modello economico-sociale, costruito nell’arco di decenni, è oggi sotto attacco, diretto o attraverso il cavallo di Troia del Ttip.
Nulla di personale, allora, nel nostro rifiuto di schierarci. O di ideologico. Semmai un richiamo forte alle stesse classi dirigenti europee. Perché non rinuncino, per puro conformismo, ad usare gli strumenti di pressione che sono a loro disposizione così da determinare, oltre Atlantico, l’avvio dell’urgente revisione strategica ( avviata, sotto traccia, da Obama); con l’ottimismo della volontà ma anche, ahimè, con tutto il pessimismo dell’intelligenza…

 

Alberto Benzoni

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